lunedì 5 dicembre 2011


 ...c'era questo guerrigliero che andava in moto con un pappagallo fissato al manubrio, ci siamo affiancati con la jeep a pareva quasi che il pappagallo se la spassasse.. ..Ho tirato giù il finestrino e gli ho detto "hey fermati che facciamo una foto"...              


 Congo - La sera

Seduto, solo, con una birra in mano e una sigaretta nell’altra, guardo assorto avanti a me, la sera avanza all’esterno della veranda di questo piccolo caffè, un numero infinito di persone mi passa davanti agli occhi ognuno col proprio destino sollevando  dalla strada una polvere costante, leggerissima e impalpabile che va’ ad avvolgere ogni cosa.
L Africa mi fa’ riflettere quando non vorrei, quando avrei bisogno di ben altro, di essere lontano da qui’, lontano dal Congo, da questa foresta, da questa gente; povertà infinita, squallore sino nell’anima, occhi neri come la notte, bui nel buio, il buio della ragione iniettata di sangue.
Bevo, la birra non mi da’ più neppure quel piacere di distacco momentaneo, bensì provo tutto l’acido che ne contiene, bevo e faccio un paio di tiri di queste sigarette locali.
Locali come questo film di esseri umani che mi passa davanti, partoriti da un medioevo dei tempi moderni fatto di povertà e fucili, mitragliatrici e Kalasnikov, miseria e proiettili e morte ad aggiungere miseria e desolazione, bambini svuotati di ogni pensiero incapaci di piangere, paralizzati nelle parole, e donne dallo sguardo nullo, con una messa a fuoco verso un improbabile infinito, senza più sorriso, usate stuprate da ogni soldato.
ITURI, Nord Est Congo, una delle zone più ricche del pianeta dove la guerra razziale ha tolto e spento migliaia di corpi e menti, dove i diamanti hanno tolto la luce, l’oro ha tolto ricchezza per portarla altrove, fittizia/ effimera/ superficiale, i pregiati legnami probabilmente nei salotti dei ricchi nel mondo, inconsci che sotto i loro piedi non hanno pezzi di legno ma intere vite umane.
Non e’ facile lavorare tutti i giorni con venticinque mila sfollati; il solo spostarsi verso i loro campi con la Jeep spesso e’ una mezza odissea, per la pioggia ,la strada fangosa e piena di buche, pietre e a volte piante capovolte dal vento.
Da più di un anno vivono in capanne di fango e rami, ma non riesco più ad avere compassione o un sentimento di pena per queste genti, aggressive selvagge brutali, come la guerra che li ha generati; forse il buio della ragione si e’ esteso sino a me ed ha oscurato anche la mia anima; un “girone” di indifferenti vi s’e’ insediato.
Bevo, osservo, guardo, ma non riesco ad avere nuovi occhi per provare un vero viaggio di scoperta in queste terre.
Tutti mi guardano al loro passare, guardano l’uomo bianco e l’uomo bianco li guarda; l’uomo bianco che lavora per l’organizzazione internazionale, che coordina progetti, che scrive nuovi programmi, che dispone di capitali, che assume o licenzia, l’uomo bianco che sta’ male, male a vedere quanto abbia inciso la colonizzazione in queste terre africane per ottanta, cent’anni.
Un retaggio di servilismo, rancore, invidia ed odio governa la gente, invidia della pelle bianca al punto che spesso vedi per la strada persone con la faccia sfigurata dai prodotti chimici per schiarire la pelle; una vera aberrazione mentale.
Faccio un tiro di sigaretta e penso a quanto sia costretta la vita di noi espatriati in terre lontane, dove non e’ certo l’effimera possibilità di usare un cellulare ad accorciare le distanze, perché un telefono accorcia il tempo e non lo spazio.
Spesso parlo con i colleghi di altre organizzazioni, eccone uno che passa con la sua Jeep sulla strada...potenziali naufraghi, alla ricerca di noi stessi in fondo, solo che il genius loci non rappresenta certo il tronco più adatto a cui aggrapparsi.
Non sono certo gli “agi” di cui disponiamo a placare la solitudine, la mancanza di rapporti sinceri, l’impossibilita’ di inserirsi minimamente nella realtà locale...
...perché l’uomo africano e’ a cento anni da noi, sì cento , ma si tratta di anni luce, un salto incolmabile ci separa, ed e’ un salto nel modo di pensare, non nello stile di vita.
Accendo un’altra sigaretta, questa sera non è sera, uno strano crepuscolo mi avvolge, mi soffermo su di me, sui miei pensieri, penso ai colleghi che vedo la sera dopo il lavoro, parlano di progetti, di gente, di capitali , di spostamenti di militari, di battaglie, ed ecco che mi accorgo di ciò che non mi convince….
…l’indifferenza…
… mi pare così, che abbiano sviluppato una sorta di autodifesa  alla violenza di questi luoghi, una specie di abitudine per immunizzare l’anima….
E’ questo che non voglio, voglio restare con l’orrore per le cose brutali, con il rifiuto dell’accettazione, con lo spavento per l’ignota destinazione di questi popoli.
Bevo, fumo, penso che gli africani dovrebbero essere responsabili del proprio futuro, perché così come è vero che il capitalismo occidentale ha bisogno di queste terre, di questi sottosuoli, è vero anche che capita di vedere questi popoli nell’imitazione peggiore di ciò che l’uomo bianco ha esportato di sé, eppure non mi sento di dire che la colpa sia tutta degli uomini dalla pelle chiara.
Spesso la pietà è figlia della presunzione e credere che il destino prossimo dell’Africa dipenda in maggior grado, se non addirittura, esclusivamente dai paesi  sviluppati è forse un modo per reiterare in una forma differente e più sofisticata una forma di colonialismo.
Credo che bisogna avere il coraggio di ammettere che sotto non pochi punti di vista l’Africa è anche artefice in parte della propria condizione, e penso agli svariati dittatori che tanto poco han fatto per lo sviluppo dei propri paesi e che tanto han fatto invece per distruggere la speranza e a tutti questi militari che niente conoscono al di fuori della violenza.
Non responsabilizzare gli africani di parte della loro situazione varrebbe come considerarli altro dall’essere umani.
E poi ci sono sì gli uomini bianchi, con la loro fretta, presunzione, di capire, di sapere, di risolvere, lontani dalla semplicità che contraddistingue l’uomo comune africano, poveri sciocchi bianchi che pensano di poter applicare sempre delle schematiche imparate a tavolino in comode stanze in Europa, quando la realtà è invece così lontana dagli schemi, dalla logica, dalla teoria.
Siamo così incapaci di guardare dentro le cose, così sicuri di essere portatori di verità e non sappiamo guardare dentro i loro pensieri dentro il loro mondo.
Magari per il nostro solo bisogno di compassione e consolazione, che si esaurirà in fretta, molto in fretta, perché e vero, sicuramente vero, abbiamo così tante cose da fare…!
O forse nessuna…
La sigaretta è finita, la mia possibilità di dare anche, di ricevere pure.
Ho deciso, a fine progetto  parto.   Addio Congo

Nessun commento:

Posta un commento